La vita del credente ha un punto di appoggio essenziale dal quale non è possibile prescindere: LA PAROLA DI DIO. Tutto ciò che un cristiano fa dovrebbe essere conseguenza dell’accoglienza della PAROLA DI DIO..
La vita, lo stile di vita, i principi di vita dovrebbero essere la trascrizione di quanto la Parola chiede all’uomo. Quindi la Parola è il nostro più grande, il sommo criterio di azione per sapere come vivere da veri figli di Dio.
La conseguenza è chiara: la SCRITTURA ha sempre il primo posto, è sempre la sorgente a cui la Chiesa si riconduce nei suoi insegnamenti, nei suoi culti, come in ogni altra attività pastorale.
Tra le tante attività pastorali c’è anche quella della testimonianza della Carità.
Dunque la PAROLA DI DIO va collocata al primo posto nel nostro agire, sia personale sia di gruppo e di comunità. Ovvero la Parola è il primo fondamentale criterio con cui dobbiamo impostare la nostra relazione con il fratello più povero, il nostro modo di ascoltarlo ed accoglierlo, modellare la nostra organizzazione e quella delle nostre attività ma anche il nostro pensiero sul come affrontare le povertà che ci vengono presentate.
La nostra azione, poi, verso i più poveri non deve essere finalizzata al solo fine di “sollevarlo” dalla sua condizione difficile ma, soprattutto, occasione per aiutarlo ad incontrare in noi l’amore misericordioso di Dio.
Da quì scaturisce la necessità di fare una seria verifica per capire se nelle nostre azioni, nella nostra organizzazione,nel nostro stile di relazionarci tra di noi e con l’ALTRO la PAROLA DI DIO abbia veramente il primo posto.
Esiste una stretta correlazione tra la Parola e l’esperienza umana; la Parola è sempre incarnata e l’operatore di Carità può trovare nel fratello più povero quell’aiuto a meglio comprendere la coerenza del passaggio tra la Parola che accogliamo e la prassi che esprimiamo nei fatti.
Certo non è facile tradurre questa logica (Parola/Vita) nelle concrete storie di ordinaria povertà che incontriamo. È una sfida da accettare e da affrontare, ma in questo esercizio abbiamo come aiuto gli insegnamenti della Scrittura e dei Documenti della Chiesa. Da non trascurare poi che la frequentazione dei volti della sofferenza ci può essere di sprone e di sostegno a comprendere meglio i messaggi della Scrittura e ci può aprire orizzonti nuovi per il nostro modo di servire.
Per comprendere in profondità i poveri, e agire di conseguenza con spirito solidale, dobbiamo partire sempre dalla PAROLA DI DIO . Non è dal nostro buon cuore o da valutazioni di tipo sociologico che nascono le vere motivazioni del nostro agire verso i più piccoli, ma è la PAROLA che ci porta ad agire guardando dentro il cuore dell’altro e non fermarci soltanto, ai pur importanti, aspetti esteriori.
Quanti decidono di servire i poveri, e quindi Dio di cui i poveri sono i naturali possessori del suo Regno (Lc 6-20) , dovranno imparare che il centro, il fulcro del loro operare non è il “servizio”, ma ciò o a chi il sevizio è diretto. Prima viene Dio, poi il Regno, poi viene il povero, la persona, poi il “servizio”. Se non si rispetta questa priorità il “servizio” si trasforma facilmente e quasi impercettibilmente in una forma di potere, di comando, in dominio.
Il rischio è quello di pensare che, proprio per il servizio che si presta, si acquisisce un diritto sull’altro, diritto che va poi riconosciuto pubblicamente con attenzioni, dichiarazioni, benemerenze, onori.
Chi sceglie, per amore, di avvicinarsi e di farsi in qualche modo carico della persona ferita dai disagi per alleviarne il dolore, per compiere insieme un tratto di strada, per tenergli la mano quando è infermo, quando è subissato da pendenze di interesse economico,compie un gesto di carità evangelica. Altrimenti che senso avrebbe il provocatorio Cap. 25 di Matteo che accomuna chi si è fatto prossimo a chi ha tenuto le prudenti distanze nella domanda, “Quando ti abbiamo visto….?”